la melma………………………………………………………………………………..
introduzione
L'atto di accusa del Pubblico Ministero Agostino Abate contro il comitato d'affari di Varese e provincia
La stagione che uccise la politica
In questo Paese dalla memoria corta e nel quale l'attacco alla magistratura ha assunto toni così violenti da mettere in pericolo lo Stato di diritto, viene spesso il sospetto che le parole "mani pulite" rappresentino qualche cosa che non sia mai esistito. Una specie di fantasma. O, tutt'al più, siano la sigla di qualche prodotto per togliere la polvere dai mobili di casa. Il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, ad esempio, con un'interpretazione del tutto personale, ha definito mesi fa "Mani pulite" "un ballo giudiziario" sino a paventare una "guerra civile" che venne combattuta in quegli anni, per certi versi assai lontani e di cui, con il passar del tempo, si è perso il ricordo. "Guerra civile" fra quali contendenti? "Guerra civile" per quale obiettivo? "Guerra civile" mentre il Paese che cosa stava facendo?
La realtà è molto più semplice, addirittura banale. La guerra, se guerra fu, ebbe due protagonisti, come acutamente osservò lo scrittore Corrado Stajano, da una parte le guardie e dall'altra i ladri. Non solo a Milano a cui si è soliti riferirsi con maggior emozione ma in tutt'Italia, anche se, per il rigore che si deve al dato storico, il debutto di "Mani pulite" avvenne a Savona, nel 1983, con il "caso Teardo", il presidente socialista della Giunta regionale, fatto arrestare dai giudici Franco Granero e Michele Del Gaudio, in compagnia di una nutrita schiera di sindaci del Ponente per gravissimi reati contro la pubblica amministrazione. Quella dei magistrati è stata una discesa nel regno putrido della corruzione, dentro la logica impazzita della politica prestata al malaffare per garantire ricchezza e potere personali, nel ventre molle di uno Stato dove, fra regole e leggi di ogni tipo, fra lacciuoli e trappole spesso incomprensibili, la faceva da padrone una norma non scritta, quella di pagare. Pagare le tangenti, ecco le vere pallottole della "guerra civile".
Varese, una delle capitali storiche del "triangolo industriale", una smisurata concentrazione di ricchezze, le banche zeppe di denaro come uova, la frontiera, a due passi, pronta a calamitare interessi di ogni tipo, non fu esente dall'ondata del malaffare. Tutt'altro. Ci fu un momento che fu travolta ed uno successivo in cui l'illecito diventò la regola, il pane di ogni giorno, il collante per cementare amicizie, patti, avventure, in un accordo che aveva come obiettivo la morte per consunzione della politica.
"Questa gente deve metterselo ben in testa che deve passare da me", era il martellante refrain che un senatore democristiano del basso Varesotto amava ripetere ai propri complici, utilizzandolo come uno scudiscio, quando qualche imprenditore meditava di abbassare il prezzo o, peggio ancora, di sfuggire al versamento del dovuto. Pagare pacchi di milioni, strappati da un manipolo di uomini politici in combutta con i pro-consoli di turno, collocati a macchia di leopardo sul territorio, infilati in Provincia, Comuni, Consorzi di tutela e risanamento del territorio e delle acque, enti pubblici e privati, strutture ospedaliere, istituti di credito, associazioni di beneficenza o società fittizie costituite sui due piedi per rubare.
"Guarda amico mio che per restare in questo posto devi produrre, altrimenti lì non ti teniamo", aveva fatto sapere senza troppi giri di parole il giovane sindaco del "Movimento Popolare" al debuttante assessore ai lavori pubblici, che sbigottito, dopo aver riflettuto per qualche ora sull'oscura parola d'ordine di Palazzo Estense, aveva capito e si era messo al passo col programma. Molti, malgrado le inchieste fossero già iniziate e alcuni protagonisti avessero varcato le porte del carcere dei Miogni, avevano deciso di non arretrare di un passo dalla trincea, di continuare imperterriti a sfidare la legge, facendo i propri affari. "Caro dottore, se non mi avesse fermato lei, chi mai lo avrebbe fatto?", era stato il commento, con uno sprazzo di liberatoria sincerità , al magistrato, di un rampante assessore, quando gli uomini della polizia giudiziaria avevano bussato all'uscio di casa per arrestarlo.
Pagare mazzette per ottenere un appalto, una fornitura, una concessione, un contratto di consulenza, l'autorizzazione a gettare rifiuti in una discarica, i permessi per metter su una Casa di riposo per i vecchietti della valle, il benestare per piazzare un'agenzia bancaria nell'area ospedaliera, finanche per ungere le ruote del Premio letterario dedicato a Piero Chiara. La melma e non la "guerra civile". Una melma insopportabile che senza presunzione ("ho voluto ripulire una piscina, non il mare"), un infaticabile rappresentante dello Stato, ha cercato di rimuovere, andando di persona a individuare, nei posti di lavoro, negli uffici, nelle case private, in strada, negli alberghi, oltre confine, qualche volta anche nei luoghi di vacanza, i piccoli ed i grandi attori del brutale saccheggio, senza quel contributo spontaneo della "società civile" che, in altre sedi giudiziarie, s'era ammassata, in fila dietro l'uscio della Procura della Repubblica, svolgendo a volte un ruolo decisivo.
A Varese, niente di tutto questo. Bocche orgogliosamente cucite per cui i vari protagonisti dell'illecito sono stati individuati e catturati, uno per uno, chi in villa con annesso parco, chi in spiaggia, chi all'hotel con il numero telefonico dell'avvocato a portata di mano, chi in una sterminata tenuta in riva al lago, chi all'estero con la polizia alle calcagna, chi mentre s'affacciava incuriosito sull'uscio del Palazzo di Giustizia. Dai segretari provinciali dei maggiori partiti di maggioranza (la Dc e il Psi) e d'opposizione (il Pci), ai sindaci, assessori, consiglieri regionali, provinciali, comunali, parlamentari, ex ministri, ex sottosegretari, ex presidenti di Commissioni, acrobati della contabilità dei vari partiti, funzionari pubblici che "non avevano visto e non avevano sentito", ingegneri, architetti che avrebbero voluto rivoltare Varese come un guanto, imprenditori più o meno di razza, parvenù dell'ultima ora con la spider, portaborse e mezzemaniche dell'amministrazione, amici ed amici degli amici.
Il ballo, quello a cui si riferiva il presidente del Consiglio c'era stato veramente, un ballo probabilmente mai interrotto (con molti protagonisti, pronti a rientrare, armi e bagagli in campo), un ballo di miliardi, i miliardi della corruzione. Hanno strabuzzato gli occhi i carabinieri, i finanzieri e gli agenti di servizio, certamente offesi, quando nell'aula del Tribunale di Varese (bersaglio a sua volta di una gigantesca operazione tangentizia, fallita in extremis per la tempestività dell'indagine giudiziaria), hanno dovuto ascoltare gli echi delle enormi cifre consegnate e intascate, trattate al lume di candela nei ristoranti del centro città fra un vol au vent e una coppa di spumante o imposte, se del caso, con la voce alterata e la beffarda risata di circostanza.
Migliaia di milioni, l'autentica unità della corruzione, quella concretamente rapportabile con lo stipendio e il salario del cittadino medio che avrebbero dovuto servire a migliorare le condizioni civili e sociali della gente, a costruire strade più comode e zone urbane a misura d'uomo, impianti sportivi e strutture culturali troppo a lungo attese (a Varese c'è chi ha intascato finanche la tangente di 300 milioni per un teatro che non si è mai visto!), cronicari meno inospitali e corsi d'acqua più puliti, e l'avevano invece impoverita, inventando imprese fittizie e centrali di fatturazione false con parcelle rette sul nulla dove, attraverso una catena di ricatti e di prevaricazioni, venivano imposte le leggi della giungla. Storie che hanno riempito, lasciando sgomenti, la requisitoria del pubblico ministero Agostino Abate che, dal 26 settembre al 19 dicembre 2001 (dodici udienze per oltre 50 ore con punte drammatiche), ha ricostruito in modo quasi ossessivo, punto per punto, momento per momento, quello che fu il progetto criminoso di un ristretto Comitato affaristico clandestino (anche per il giudice delle indagini preliminari Ottavio D'Agostino, un'associazione per delinquere), pilotato dagli uomini allora al timone della politica provinciale senza che i partiti, è corretto sottolinearlo, fossero, se non indirettamente, coinvolti.
Per quale ragione avvenne quello sconquasso che vide aprirsi le porte della galera per uomini ritenuti rispettabili, con una carriera in qualche caso irresistibile, avvocati, architetti, geometri, ingegneri, anche politici puri che si erano inventati spazi dentro i quali ordire il programma di corrutela e di tradimento degli ideali? In questo scenario troverebbero radici le ragioni della sbandierata "guerra civile"? Anche dalla minuscola Varese, la ex-Versailles della metropoli milanese, tanto appare deturpata urbanisticamente, si sono perseguiti, lancia in resta, scandali creati solo in provetta, consegne di denaro immaginarie, traffici dove l'illegalità era la stella cometa? O le motivazioni delle azioni di giustizia contro la corruzione pubblica e privata trovano ampia giustificazione in una stagione di soprusi e di ladrocinio, di prevaricazioni e di bassezze morali?
Pochissimi, eccetto i leader del Comitato clandestino sapevano cosa stava succedendo e, allora, per il "caso" di Varese non pare corretto parlare di Tangentopoli, fatta salva l'efficacia sintetica della definizione, perché ci fu anche chi si oppose pagando di persona, chi scoprì il bandolo della matassa e fu brutalmente liquidato, chi cercò disperamente di risalire il fiume perdendo faccia e lavoro.
Il Comitato d'affari, nonostante la sua attività apertamente illegale, non mise tuttavia mai in discussione la vita democratica. Si arricchì per avidità di denaro e per desiderio sfrenato di maggior potere. Una miscela esplosiva che trascinò nel fango persone cristalline. Il patto fu coperto da comportamenti di estrema riservatezza e l'esistenza dei partiti, se fu condizionata indirettamente, mai si interruppe, pur pagando alla fine un prezzo altissimo, non solo finanziario.
Chi rubò, chi alimentò la macchina dell'illecito, chi pianificò la razzia, chi disegnò la mappa del malaffare, chi mise in piedi gli strumenti per piegare con scaltrezza le altrui volontà , qualche volta speculando sulle stesse amicizie, incamerò mazzette e nello stesso tempo uccise la politica.
Il dottor Abate, dal suo scranno, in un'aula disertata - almeno in questa fase del processo - dai media e dai cittadini (in azione per le immagini registrate la telecamera di una sola TV privata), un evento sintomatico di un inquietante andazzo di disattenzione generale, ha ribadito più volte e a ragione questo concetto. Ha smascherato i colpevoli che con le tangenti hanno fatto piazza pulita degli avversari interni; ha impedito che altro denaro venisse sottratto dalle casse pubbliche mentre non è riuscita purtroppo l'ardua impresa di recuperarlo tutto; ha lamentato l'assenza, fra le parti civili, dei partiti politici, le prime vittime di questo disastro; ha invocato dal Tribunale, con una sentenza di condanna, la riattribuzione dell'onore loro sottratto dal manipolo dei malfattori, "perché la politica - ha ricordato - è quell'insieme di principi e di idee per il quale in diversi momenti della nostra vita molte persone hanno sacrificato anche la loro esistenza".
Un volo necessario prima di scendere, nell'acquitrino delle malefatte, delle colpose o dolose collaborazioni, senza le quali nessun disegno sarebbe stato raggiungibile e delle incomprensibili debolezze della pubblica amministrazione che non trovò altro, pur schiacciata dall'arroganza dei politici, che restare a guardare senza muovere un dito. E, in questo quadro, è la macchina dell'illecito a mettersi in moto e produrre sempre più potere per condizionare gli appuntamenti elettorali, per premiare i solerti raccoglitori di denaro, per consegnare le cariche ad uomini di altri partiti se gli eletti, eventualmente, non fossero stati della giusta corrente, per costruire in vitro la rete dei professionisti cui affidarsi per ottenere i lavori per gli appalti, il vero volano dell'operazione criminosa.
Per gestire nella riservatezza il malloppo razziato, può servire di tutto: un Istituto culturale dei lavoratori intitolato alla nobile figura del sindacalista cattolico Giulio Pastore dove celare i finanziamenti illeciti; una società per consulenze fittizie destinata a riciclare il denaro per possibili attività nei paradisi dell'Est europeo; un sottocomitato territoriale affidato ad una sparuta pattuglia di politici locali che si impegna a versare una tassa annuale ai propri superiori, per gestire gli affari senza interferenze indebite; alcune imprese edili che, favorite dalle cosiddette liste bloccate, dominano incontrastate il mercato dei lavori pubblici accaparrandosi tutto quello che è possibile. I segretari provinciali dei tre maggiori partiti, la Dc, il Psi, il Pci, agiscono in accordo strettissimo, senza temere nessuno, trovando a tambur battente chi esegue gli ordini. Alcuni sindaci e parlamentari si muovono al contrario come "battitori liberi", conquistano i loro spazi, affermano la loro egemonia, s'impongono insofferenti della legalità .
Crollato il castello (è la primavera del 1992 quando si verificano i primi arresti), si svelano giorno dopo giorno i mediocri scenari di una classe politico-imprenditoriale sfatta, spesso ancora aggressiva, che gioca senza pudore la propria partita nel tentativo di nascondere le proprie tracce. Impresa fallita. Gli uomini si accapigliano, i "traditi" si accaniscono contro i "traditori" (ad uno di essi viene trovato addosso il prospetto del riparto-quote delle tangenti, frutto di un'abile contabilità ragionieristica!), i subalterni con un moto di rabbia chiudono astiosi la partita con i loro mandanti, le ruote di scorta sparano "ad alzo zero" contro i boss degli affari, e in quest'aria confusa da 8 Settembre, la vergognosa storia del potente Comitato d'affari si arricchisce di particolari che finiscono per rendere ancor più meschino ogni immaginabile orizzonte.
Cosa facevano, ad esempio, i cinque influenti leader della Dc varesina con l'assegno plurimilionario appena ricevuto dall'Unione Industriali mentre stavano raggiungendo la sede del partito? Discutevano animatamente non per nobili ragioni ma perchè ciascuno avrebbe voluto probabilmente impadronirsi del malloppo, iniziativa abortita per una tempestiva iniziativa del segretario provinciale che era così riuscito a mettere al sicuro il bottino nella cassaforte.
E che dire della scatola di cioccolatini nell'ufficio privato del deputato utilizzata come cassa volante dove far scivolare dalle mani dei corrotti il prezzo del reato? Banalità verrebbe voglia di dire, come quella sorta di invalicabile trincea, innalzata nella sede socialista di Varese da quel parlamentare che, per evitare che qualcuno potesse metterci il naso, aveva pensato bene di appiccicare sul muro, dietro il suo tavolo, l'ovale in bronzo della Camera dei Deputati come un avvertimento: "attenzione signori giudici qui, senza autorizzazione, non si entra". Chiaro, chiarissimo, come il conto in banca dell'ex specchiato ministro che, sotto il leggiadro nomignolo di copertura di "stella alpina", in virtù dei suoi trascorsi fra le penne nere, s'era visto accreditare 100 milioni per un appalto attribuito in Emilia-Romagna e poi dirottato, con la velocità del fulmine, a Varese; tutti beninteso ignari, compreso l'ineffabile segretario generale del Consorzio di tutela delle acque, che pur un'occhiata a quella faccenda avrebbe dovuto darla.
Basta scorrere le migliaia di pagine di questa decennale inchiesta e aver ascoltato la impressionante requisitoria per trovare a decine e decine, nel procedimento penale dove si è verificato il più alto concentrato di pubblici amministratori mai apparso in tutto il Paese, pittoreschi esempi di malcostume. Un deputato Dc si era inventato addirittura il proprio "agente segreto", un probo cittadino valtellinese della Val Malenco che, risucchiato nel vortice della politica d'accatto, si era prestato per qualche milione, rovinandosi, a raggiungere Milano, con movenze da fantozziano "007" per ritirare la "busta" milionaria.
Anche stravaganze, tanto il clima dell'epoca le permettevano, e, così, il presidente di una squadretta di calcio provinciale, era riuscito nell'impresa di accaparrarsi una sicura promessa del pallone senza sborsare una lira bucata, sol perché amico del sindaco del paese "in affari" con un industriale della zona, padrone a quel tempo del Varese Calcio mentre un rinomato ingegnere idraulico, per pura amicizia, acquistava per l'assessore-cacciatore l'equipaggiamento all'ultima moda perché fosse a suo agio nei boschi incontaminati della Scozia!
A Busto Arsizio, erano gli anni '90, girava voce che la regola sui lavori pubblici fosse il 5% per cui il prevosto monsignor Claudio Livetti, al Te Deum natalizio, aveva fatto sentire alta la sua voce di aperta condanna. Pessima idea perché, circondato dai sospetti e da silenzi assordanti, il presule finì per subire, di lì o poco, il peggiore dei dileggi possibili: l'affitto della sede Dc, di proprietà della Curia, gli venne infatti saldato dai notabili locali con una manciata di milioni frutto di una tangente dell'ultima ora!
Il pubblico ministero ha chiesto che i giudici, condannando gli imputati, riscattino la politica violata, affermando la certezza della legge. Questo è l'asse portante dell'atto di accusa per evitare che la corruzione, diventata un dato strutturale, sia nella condizione di stendere sulle cose un velo di nebbia che tutto confonde ed appiattisce, che tutto fa diventare "normale" fin quasi ad annullare il senso stesso di illegalità .
Ecco le richieste di condanna:
Augusto Rezzonico 10 anni e 10 mesi; Carlo Facchini 17 anni, Nicola Di Luccio 13 anni, Maurizio Sabatini 11 anni, Luciano Bronzi 12 anni, Antonio De Feo 13 anni e 10 mesi, Enrico Broggi 8 anni e 6 mesi, Luigi Mombelli 8 anni e 10 mesi, Paolo Caccia 10 anni e dieci mesi, Giuseppe Bernacchi 10 anni. Arturo Albrigi 2 anni e 3 mesi, Giampaolo Aletti 4 anni, Emilio Aliverti 6 anni, Ernesto Antonaci 4 anni, Saverio Bagnati 6 anni e 3 mesi, Carlo Barile 7 anni e 6 mesi, Angelo Basilico 5 anni, Alberto Bertani 3 anni e 2 mesi, Giuseppe Bertani 3 anni e due mesi, Paolo Bevilacqua 2 anni e 10 mesi, Franco Brianza 3 anni e 4 mesi, Pilade Bruni 5 anni, Andrea Buffoni 3 anni, Bernardino Busti prosciolto, Luigi Caccia 5 anni e 6 mesi, Vittorio Caldiroli 5 anni, Manlio Castelli 2 anni e 10 mesi, Agostino Castiglioni prosciolto, Ferruccio Cecchetto 5 anni e 10 mesi, Franco Colzi 7 anni e 10 mesi, Piergiorgio Conti 5 anni e 6 mesi, Patrizio Dettoni 5 anni, Giovanni Devastato 5 anni, Giuliana Ferrofino prosciolta, Ugo Fossati 4 anni e 10 mesi, Walter Giavazzi prosciolto, Vittorio Greco prosciolto, Giorgio Guidali 4 anni e 6 mesi, Francesco Landoni 6 anni e 10 mesi, Giuseppe Leoni 1 anno e 3 mesi, Ivana Lucchesi 5 anni, Francesco Luglio 5 anni, Abramo Maffina 4 anni, Pietro Marchelli 4 anni, Giuseppe Merra 5 anni e 10 mesi, Gianluigi Milanese 6 anni e 10 mesi, Franco Mobiglia prosciolto, Giulio Nidoli 3 anni e 2 mesi, Bruno Parolini 3 anni, Alessandro Patelli 1 anno e 3 mesi, Marcello Pedroni 7 anni e 10 mesi, Paolo Pellegatta 6 mesi, Giuseppe Pisante 4 anni, Ottavio Pisante 4 anni, Adriano Polita 3 anni e 2 mesi, Sandro Polita 3 anni e 2 mesi, Gianluigi Proserpio 6 anni, Giuseppe Regalia 4 anni e 10 mesi, Cesare Rigolio 6 anni, Ennio Rosiello 3 anni e 10 mesi, Vito Rosiello 5 anni e 6 mesi, Sergio Salavtore 3 anni e 10 mesi, Michele Scandroglio 2 anni e 4 mesi, Antonio Simone prosciolto, Enrico Somma prosciolto, Emilio Sordi 4 anni e 10 mesi, Dario Sottocasa 6 mesi, Mario Squizzato 5 anni e 6 mesi, Giovanni Toia 6 anni e 8 mesi, Vito Trotta 6 anni, Mauro Trovatore 4 anni, Aldo Zocchi 4 anni, Claudio Zoldan 1 anno
"Noi sosteniamo - ha osservato il pubblico ministero - che il Tribunale nel fare giustizia dovrà innanzitutto restituire il senso dell'onore ad un'attività , ad un concetto, ad una filosofia che, accettando certe tesi, verrebbe ingiustamente ed ulteriormente maltrattata, la politica. Tutto ciò che viene contestato agli imputati è stato fatto ai danni della politica, non per la politica. Siamo uno Stato di diritto, abbiamo una Carta costituzionale che ci insegna in che modo dobbiamo e possiamo partecipare alla vita democratica del Paese, individua strumenti precisi e ne dà rilevanza di primaria importanza. Tra questi vi sono i partiti. Giustificare in nome della politica ciò che per noi è reato, significa infierire su una vittima che in quest'aula non ha mai avuto un vero difensore. E non l'ha mai avuto, perché, lo diciamo subito, nel lungo elenco delle originarie parti civili, noi ci saremmo aspettati quelli che consideriamo i grandi assenti, i partiti politici. Sono loro le vittime di coloro che avevano assunto il controllo della loro organizzazione e sono stati poi coinvolti, offesi, costretti a sciogliersi sotto l'effetto devastante della scoperta. Restituiamo onorabilità e credibilità alla parola "politica". Non accettiamo che quegli imputati, ancora una volta, se ne facciano scudo per giustificare ciò che non è altro che un disegno premeditato per commettere gravi azioni delittuose".
Ritrovare in questa diserzione una delle concause del declino dei valori sostanziali del nostro sistema e della carenza di tensione civile non è per niente azzardato. Nessuno dei partiti infatti pur ridotto in poltiglia, coperto di debiti, vilipeso dalla grande abbuffata, ha avvertito il bisogno di rialzare la testa in un moto d'orgoglio e di prender la parola, di esserci. Una pietra tombale.
Gherardo Colombo, pubblico ministero dello storico pool milanese è del parere che con "Mani pulite" "è emerso il sistema nella sua completezza" non confinato nello stretto linguaggio giudiziario (e cioè dare del denaro ad un pubblico funzionario con riferimento ai suoi atti d'ufficio) ma nel senso più lato dove "corrompere" trova i corretti sinonimi in "guastare, contaminare, inquinare, avvelenare, contagiare, decomporre, infettare, ammorbare", è il sistema in sostanza dell'alterazione dei rapporti, della frantumazione delle fedeltà , del disfacimento delle responsabilità , dello strappo violento delle norme.
La sentenza del Tribunale di Varese presieduto dal giudice Franco Mancini, a latere Carmelo Leotta e Oriente Capozzi, dirà se e fino a che punto l'edificio accusatorio ha resistito ai riscontri del dibattimento. Resta un'osservazione fondamentale: l'attività della magistratura ha dimostrato in questo tempo che anche i potenti possono subire le conseguenze delle loro azioni ed essere sottoposti ad un processo, anche se il diffuso sostegno popolare che ha accompagnato i giudici in questi anni, pare sfilacciato sotto i colpi di una forsennata campagna politica-demagogica di segno contrario, che, per la potenza dei mezzi utilizzati ed una parallela fragilità e permeabilità del tessuto civico, sembra aver fatto breccia.
E' certo comunque che il semplice fatto che "Mani pulite" abbia potuto verificarsi non basta a rassicurare circa l'esistenza di una diffusa e forte ostilità alle pratiche di corruzione. Molto dipende allora da quali soggetti e gruppi proviene la reazione alla corruzione - come osserva il giurista David Nelken - oltre che la costruzione del problema come "scandalo". Per certi versi è stato certo positivo e non usuale il fatto che, nel caso di "Mani pulite", l'emergere degli scandali sia stato il risultato dell'attività dei magistrati e non di quella dei partiti politici, poiché ciò ha significato che le accuse avanzate non erano necessariamente espressione della lotta politica tra gli stessi partiti.
Da un'altra angolatura il fatto, però, che l'attacco sia partito dalla magistratura e non dal mondo politico cioè dagli stessi partiti o dall'opinione pubblica (a Varese quasi del tutto silente) ha presentato aspetti preoccupanti, in quanto l'esplosione delle inchieste sulla corruzione ha prodotto inevitabilmente una reazione nel sistema politico, nel momento in cui quest'ultimo ha manifestato interesse ad intervenire sul ruolo di "supplenza" assunto dalla magistratura che, secondo alcuni, avrebbe preso addirittura le sembianze di un'autentica "rivoluzione" trovando, in "Mani pulite" una concausa o quanto meno una premessa: i risultati del referendum sul sistema elettorale, la caduta dell'ultimo governo democristiano e l'uscita di scena di tutti i maggiori protagonisti-centrali e periferici-della vita politica degli anni '80-'90 hanno rappresentato un momento centrale di quella "rivoluzione".
Al di là di ogni valutazione sulla colorita e logora espressione "porto delle nebbie" usata in passato per qualche sede giudiziaria, non vi è alcun dubbio che per lunghissimi anni la criminalità dei colletti bianchi ha conosciuto nel nostro Paese un regime di privilegio fondato su una serie di cause, dall'inadeguatezza delle forze di polizia non sempre involontaria, a un sostanziale disinteresse da parte di una rilevante parte della magistratura, fino alla difesa corporativa del Parlamento verso i propri membri. Mettere mano ai reati economici e di corruzione comportava non solo misurarsi con notevoli difficoltà tecniche, ma anche trovare resistenze e connivenze di ogni tipo, interne ed esterne alla stessa magistratura. Significava accettare di trovarsi soli.
Soltanto la crescita culturale e la maggiore indipendenza hanno permesso, negli anni, alla magistratura di frantumare quella condizione di sudditanza e di isolamento, affrontando in modo organico la lettura dei reati della pubblica amministrazione.
Si è passato il limite? E' molto arduo separare le luci dalle ombre all'interno di un fenomeno tanto complesso che proprio recentemente, con i clamorosi casi della Clinica universitaria di Pavia e delle Molinette ("nube tenebrosa sulla città " ha tuonato dal pulpito nell'omelia del Natale 2001 il cardinale di Torino Severino Poletto, richiamando per i pubblici amministratori, "onestà e giustizia come valori assoluti e prioritari") pare aver registrato un inquietante sussulto.
Ma è certo che il tentativo in corso di spostare l'attenzione sui problemi dei giudici e della "macchina giustizia" è un segnale preciso della incapacità di una parte del mondo politico di scendere in profondità all'interno della degenerazione del sistema e di rimuovere quella vasta area di illegalità , che come un minaccioso sisma, pare voglia sovvertire i risultati fin qui ottenuti.
LA SENTENZA DI TANGENTOPOLI STABILI’ POI DI ASSOLVERE 12 IMPUTATI, E DI CONDANNARE TUTTI GLI ALTRI………………..SCANDROGLIO, CONDANNATO, SI SALVO’ PER INTERVENUTA PRESCRIZIONE, DUNQUE…………………………………
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