venerdì 30 gennaio 2009

Mandiamo a "morte" il sistema delle banche e tutti i politici che ne fanno i camerieri servili.



Il sano capitalismo produttivo e il malvagio capitalismo speculativo



Fino agli anni Novanta le grandi fortune venivano create nell’arco di decenni, spesso attraverso il lavoro di più generazioni. Gli industriali, i banchieri, quelli veri, rischiavano in prima persona. Se andava bene diventavano miliardari, se andava male finivano sul lastrico. E si vergognavano da morire. Negli ultimi tempi, invece, bastavano quattro-cinque anni al vertice di una banca d’affari o di una multinazionale per ottenere ricchezze esorbitanti, molto superiori a quelle dei grandi industriali di un tempo, senza mai rischiare nemmeno un centesimo in proprio, bensì sempre il capitale degli altri. Avidi e mai sazi. L’ultima rapina, da 18,4 miliardi di dollari (tanto hanno guadagnato (rubato!) i dirigenti delle banche americane nell'anno 2008), sublima il loro credo: arraffa, arraffa, arraffa. E solleva una questione ormai ineludibile: è giusto salvare le banche se la casta non viene smantellata? Piagnucolano, implorano aiuto, fanno valere il più odioso dei ricatti: «Liberateci dai debiti o saremo costretti a rovinarvi tutti». Aspettano che la bufera passi, per poi ricominciare. E invece bisognerebbe cacciarli, come da tempo chiede, inascoltato, Tremonti. «A casa o in galera», dice. Sarebbe meglio in prigione. Via tutti per lasciare spazio ai veri capitalisti, che non hanno mai smesso di credere in un valore intramontabile, quello della responsabilità personale.

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